La soffitta, il baule, le foto ricordo, costituiscono per Giuseppe una vita alternativa da “rifugio” per fare fronte al dolore della perdita della madre e al rapporto conflittuale col padre. Il luogo segreto di Giuseppe nasce dalla necessità di adattare il vissuto al dolore, alla perdita di senso della vita e al disagio nei confronti degli altri. Ma tutto questo dona al testo una struttura drammaturgica sorprendente, che fa tesoro della creazione di un tempo e di uno spazio, specifici, su cui trova sostanza il linguaggio teatrale. La fotografia è l’anello di trasmissione delle emozioni e della memoria di un rapporto interrotto violentemente tra madre e figlio. Ma è anche l’immagine muta di uno scavo doloroso dentro la materia esistenziale in età adolescenziale, esposta ai turbamenti e ai silenzi di una vita da capire e da sostenere. Tra l’assenza e la presenza, nell’inconciliabile rapporto tra spazio segreto e spazio pubblico, in cui Giuseppe si dibatte, il tempo drammaturgico instaura un legame tanto forte e tanto fragile, attraverso l’Ora d’Oro, quella prossima al tramonto, che Giuseppe continua a fotografare così come aveva fatto sua madre. Giuseppe, fotografo dell’esistenza, in fondo sa che l’attimo fuggente, attraverso la foto, incolla gli strappi del tempo. Ma fino a quando il motivo ricorrente di stampo materno “Ti ho trovato!”, vissuto come soliloquio interiore nello spazio segreto della soffitta, non passa nella realtà, sulla bocca di un’altra donna, in questo caso Maria la compagna di scuola, il contatto tra irrealtà e realtà non potrà essere ripristinato. Il titolo ne predice l’esito finale, come una formula catartica. In mezzo, nello scioglimento dell’azione, ci sta anche il risanamento del rapporto padre-figlio. Questo passa ugualmente attraverso la fotografia. Un altro patrimonio della memoria costituito dalle foto scattate dal padre a madre e figlio per fissare momenti di vita che la malattia avrebbe inghiottito. Il testo costruisce così un interessante triangolo della memoria che, agitato in un primo momento dalla tempesta della vita, trova un ordine nella realtà attraverso il classico superamento della “prova”, fino al ricominciamento del battito del tempo quotidiano: il pallone che torna a rotolare nel tempo impreciso della giornata giovanile.
Liceo Linguistico “B. Secusio” di Caltagirone, Classe III BL
SINOSSI
Cinque studenti si riuniscono casualmente in un’aula abbandonata della scuola, perché discriminati da alcuni compagni bulli. Felipe è un ragazzo omosessuale, Selma è una straniera poliglotta, Ana è un’aspirante modella sovrappeso, Juan è un nerd con la passione per la tecnologia e Sol è una giovane forte e determinata, che vorrebbe diventare meccanico.
Una volta scoperti dal nuovo bidello dell’Istituto, gli alunni cercheranno di raccontarsi seduti in cerchio, improvvisando così una stramba terapia di gruppo, in cui ogni paziente pensa di avere il problema più importante da risolvere. Davanti alla reazione degli alunni, il bidello cercherà di far capire loro che tutti possono soffrire un disagio: “Ogni persona che vedi sta lottando una battaglia che non conosci”.
Colpiti dalle parole del bidello, i ragazzi decidono di creare un sito internet attraverso il quale risponderanno, in maniera anonima, a tutte le richieste di aiuto da parte dei compagni di scuola. A collaborare con la banda dei Discriminati Anonimi, arriveranno anche Leopolda e Leonarda, due sorelle gemelle affette da un disturbo dipendente di personalità.
E se fossero proprio i bulli a chiedere aiuto attraverso la pagina web? Può un soggetto discriminante soffrire tanto quanto colui che viene discriminato? E se il bidello nascondesse un segreto che solo la Preside conosce?
Dopo diversi colpi di scena gli alunni arriveranno alla consapevolezza di essere tanto diversi quanto uguali, poiché un disagio può dividere, ma anche, e soprattutto, unire.
Un posto segreto, a parte, che come tutti i luoghi-rifugio sa di abbandono. Un luogo clandestino addirittura della scuola, dove riconoscersi, tra disadattati e inadeguati, sigilla un nuovo modo di stare insieme, dove il rito terapeutico del raccontarsi coincide con il rito stesso del teatro. La mancanza di comunicazione e di accettazione dell’altro, di cui soffrono i protagonisti, diventa dibattito come una seduta psicanalitica collettiva.
Si cerca il dialogo, fare squadra tra giocatori che la società giudica di poco valore. Risiede qui il merito maggiore del testo “DiscriminatiAnonimi.it” che oltre a inventare un sorprendente nodo drammaturgico di scrittura, produce uno scarto ironico tra la situazione reale e quello che si vuole rappresentare. Il gruppo dei discriminati anonimi ha proprio il guizzo geniale di spazzare via ogni barriera discriminatoria con l’arma dell’ironia, svuotando di qualunque potere distruttivo le pressioni della mentalità comune. Il gruppo, mettendo in campo la condizione personale di disagio dei partecipanti, trova da sé una uscita che seppure alla lontana ricorda l’esperimento di catarsi della tragedia greca.
Deus ex machina il bidello. Figura anch’essa di margine, ma felicemente recuperata nella memoria di tutti i noi come il padre clandestino di tante generazioni scolastiche. Nel testo l’effetto “tragico” in chiave contemporanea si chiama web e l’indirizzo, che dà il titolo al testo, è la via verso una condivisione globale di un evento ugualmente clandestino, perché, sebbene sia accessibile a tutti, ognuno può accedervi in maniera anonima, compresa la preside della scuola.
L’iper-rifugio globale DiscriminatiAnonimi.it nasce quindi da una nutrita categoria di inadattati, dai gay agli emigrati, che, lungi dal ripetere i rituali comuni di discriminazione, forma una comunità parallela capace di ribaltare il destino, come nelle migliori rivoluzioni, seppure qui con la leggerezza e la freschezza del caso. Ma la sorpresa è raddoppiata nel momento in cui uno dei protagonisti, pur dichiarandosi disinteressato alla comunità dei discriminati, alla fine produce un altro livello drammaturgico del testo, il suo doppio in spagnolo. Felipe trascrive in altra lingua, come in un’altra differenza dell’ascolto, la storia del gruppo. Tutto questo per dirvi che chiunque ne abbia bisogno consulti pure, anche in una lingua straniera, il sito DiscriminatiAnonimi.it.
Messaggio dell’On. Lucia Azzolina, Ministro dell’Istruzione
Carissimi, il concorso “Scrivere il Teatro” è ormai una bella e importante consuetudine per la scuola italiana e per il Ministero dell’Istruzione. Il successo dell’iniziativa è sicuramente dovuto alla sua capacità di liberare le migliori energie creative di studentesse e studenti, sempre assistiti dal lavoro straordinario dei loro insegnanti. Di introdurli in un mondo, quello della drammaturgia, che ricopre un ruolo di primo piano nella nostra tradizione culturale.
Il Teatro è sempre stato anche uno degli strumenti con cui donne e uomini hanno letto la realtà. E oggi che, per via dell’emergenza sanitaria, una realtà del tutto nuova e inedita si è affacciata nella nostra quotidianità, entrando con forza anche nella vita scolastica, il Teatro può costituire uno strumento doppiamente importante per individuare nuove chiavi interpretative per il nostro presente.
L’evento di oggi ci permette di inserire una bellissima occasione all’inizio di questo anno scolastico così particolare, accrescendo e rinnovando la nostra voglia di far ripartire la scuola con tutta la passione, l’entusiasmo, la competenza e professionalità di cui è capace. Faccio le mie congratulazioni a tutti i vincitori e sono certa che il grande talento di tutti gli Istituti che hanno partecipato sarà un positivo esempio per tutte le studentesse e gli studenti d’Italia.
Prima del mio risveglio al teatro, i miei insegnanti erano già là. Avevano costruito le loro case e il loro approccio poetico sui resti delle loro vite. Molti di loro sono sconosciuti, o sono a malapena ricordati: hanno lavorato nel silenzio, nell’umiltà delle loro sale prove e nei loro teatri pieni di spettatori e, lentamente, dopo anni di lavoro e risultati straordinari, sono gradualmente andati via da questi luoghi e poi scomparsi. Quando ho capito che il mio destino personale sarebbe stato quello di seguire i loro passi, ho anche capito che avevo ereditato quell’affascinante, unica tradizione di vivere nel presente senza alcuna aspettativa, se non quella di raggiungere la trasparenza di un momento irripetibile; un momento di incontro con un altro nel buio di un teatro, senza ulteriore protezione se non la verità di un gesto, di una parola rivelatrice. La mia patria teatrale si trova in quei momenti di incontro con gli spettatori che arrivano nel nostro teatro sera dopo sera dagli angoli più disparati della mia città, per accompagnarci e condividere alcune ore, pochi minuti. La mia vita è fatta di questi momenti unici, in cui smetto di essere me stesso, di soffrire per me stesso, e rinasco e capisco il significato della professione teatrale: vivere istanti di pura, effimera verità, dove sappiamo che ciò che diciamo e facciamo, lì sotto le luci del palcoscenico, è vero e riflette la parte più profonda, più personale di noi stessi. Il mio paese teatrale, mio e dei miei attori, è un paese intessuto di questi momenti, in cui mettiamo da parte le maschere, la retorica, la paura di essere ciò che siamo, e uniamo le nostre mani nel buio. La tradizione teatrale è orizzontale. Non c’è nessuno che possa affermare che il teatro esista in un qualsiasi luogo del mondo, in una qualsiasi città o edificio privilegiato. Il teatro, così come l’ho recepito, si diffonde attraverso una geografia invisibile che fonde le vite di chi lo compie e il mestiere teatrale in un unico gesto unificante. Tutti i maestri del teatro scompaiono con i loro momenti di irripetibile lucidità e bellezza; svaniscono tutti allo stesso modo, senza alcuna altra trascendenza che li protegga e li renda noti. I maestri del teatro lo sanno, nessun riconoscimento è valido di fronte a quella certezza che è la radice del nostro lavoro: creare momenti di verità, di ambiguità, di forza, di libertà nel mezzo della grande precarietà. Nulla sopravvive, se non i dati o le registrazioni dei loro lavori, in video e in foto, che cattureranno solo una pallida idea di ciò che hanno fatto. Tuttavia, quello che mancherà sempre in quelle registrazioni è la risposta silenziosa del pubblico che capisce in un istante che ciò che accade non può essere tradotto o trovato all’esterno, che la verità condivisa è un’esperienza di vita, per qualche secondo, anche più diafana della vita stessa. Quando ho capito che il teatro era un paese in sé, un grande territorio che copre il mondo intero, è sorta in me una determinazione, che è stata anche il compimento di una libertà: non devi andare lontano o spostarti da dove sei, non devi correre o muoverti. Il pubblico c’è ovunque tu esisti. I colleghi di cui hai bisogno sono là al tuo fianco. Là, fuori da casa tua, c’è la realtà quotidiana opaca e impenetrabile. Lavorerai, quindi, da quell’apparente immobilità per progettare il più grande viaggio di tutti, per ripetere l’Odissea, il viaggio degli Argonauti: sei un viaggiatore immobile che non cessa mai di accelerare la densità e la rigidità del tuo mondo reale. Il tuo viaggio è verso l’istante, il momento, verso l’incontro irripetibile con i tuoi simili. Il tuo viaggio è verso di loro, verso il loro cuore, la loro soggettività. Tu viaggi dentro di loro, nelle loro emozioni, nei loro ricordi che risvegli e metti in moto. Il tuo viaggio è vertiginoso e nessuno può misurarlo o metterlo a tacere. Né qualcuno può riconoscerlo nella giusta misura. E’ un viaggio attraverso l’immaginazione della tua gente, un seme che viene seminato nelle terre più remote: la coscienza civica, etica e umana dei tuoi spettatori. Perciò, non mi muovo, rimango a casa, con i miei cari, in una quiete apparente, lavorando giorno e notte, perché ho il segreto della velocità.
Traduzione di Roberta Quarta – Centro Italiano ITI
Carlos Celdrán è un pluripremiato regista teatrale, drammaturgo, accademico e professore. Vive e lavora a L’Avana, Cuba e ha portato i suoi spettacoli in tutto il mondo.
Nato nel 1963 a L’Avana, Carlos Celdrán ha affinato il suo amore e la sua esperienza del teatro presso l’Istituto Superiore delle Arti dell’Avana, dove ha conseguito una laurea in Studi delle Arti dello Spettacolo. Dopo essersi diplomato a pieni voti nel 1986, inizia a lavorare prima come consigliere residente, e in seguito come regista residente per il Teatro Buendía all’Avana.
Ha ricoperto questo ruolo fino al 1996, quando decide di creare il proprio gruppo teatrale, il famoso e apprezzato Teatro Argo. Con sede a L’Avana, Cuba, il Teatro Argo ha conquistato una grande fama con le sue interpretazioni di classici europei, di opere teatrali latino-americane contemporanee e di produzioni originali sotto la direzione esperta di Carlos Celdrán.
Gli spettacoli del Teatro Argos hanno cercato di dare nuova vita al canone del teatro europeo moderno, con spettacoli di Brecht, Beckett, Ibsen e Strindberg che portano la cultura e i gusti europei a un pubblico latino-americano. Il Teatro Argos ha realizzato anche un grande lavoro di promozione dei drammaturghi cubani, portando in scena opere di artisti locali come Gonzalez Melo. È questa fusione di diverse culture che ha portato il Teatro Argos, uno dei più importanti gruppi teatrali cubani, ad essere acclamato oltre i confini nazionali. Il loro celebre laboratorio di recitazione, che cerca di trovare un linguaggio comune per gli artisti, è riconosciuto come un’iniziativa capace di mettere il mondo insieme.
Il punto culminante dell’esistenza del teatro è stata la produzione intitolata Ten Million, un’opera teatrale scritta e diretta dallo stesso Carlos Celdrán. Questa pièce ha ricevuto il plauso della critica, ed è stata messa in scena sia a Cuba che a livello internazionale. Il loro spettacolo più recente Misterios y pequeñas piezas nel 2018, anch’esso scritto e diretto da Carlos Celdrán, è stato anch’esso accolto molto bene. Questi sforzi per Cuba e il teatro internazionale hanno portato a Carlos Celdrán numerosi riconoscimenti e premi. Ha vinto il Cuban Theatre Critics Award nella categoria Best Staging in più occasioni – ricevendo il premio per ben 16 volte dal 1988 al 2018. Oltre a questo successo di critica, ha anche ottenuto un importante riconoscimento dal suo paese e dal mondo, ricevendo la Distinzione Nazionale della cultura cubana nel 2000 e il Cuba National Theatre Award nel 2016. Durante questa straordinaria carriera, Carlos Celdrán è rimasto impegnato per ispirare e aiutare gli altri, lavorando come professore presso istituzioni di alto livello a Cuba, in Sud America e in Europa. Egli stesso ha costantemente lavorato per migliorare e approfondire le sue conoscenze, conseguendo vari Master nel 2011 dall’Università Rey Juan Carlos di Madrid. Le capacità di insegnamento di Carlos Celdrán l’hanno fatto entrare nella Facoltà dell’Istituto Superiore d’Arte Cubana, dove ha insegnato per più di 20 anni, ed è stato a capo del corso di Laurea Magistrale in regia dal 2016, trasmettendo le sue conoscenze alle future generazioni di creatori teatrali cubani. Allo stesso tempo, la sua espressione artistica continua a trovare forma nella regia e nella drammaturgia con il Teatro Argos.
Traduzione di Roberta Quarta – Centro Italiano ITI
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